Trump non va a Davos

E’ una singolare curiosità che il pomposo World Economics Forum abbia scelto da sempre di svolgere il suo meeting annuale nella località di Davos, la stessa che Thomas Mann scelse per ambientare il suo romanzo sulla crisi della borghesia europea all’indomani del primo conflitto mondiale. Dalle nubi della montagna di Davos il giovane Hans Castorp faticava a comprendere il tempo e il senso della comune vita che si svolgeva a valle. Anche i grandi riuniti nella cittadina delle alpi svizzere possono essere sospetti di perdere la cognizione esatta delle cose. Questo non significa necessariamente che il presidente Trump non si sia presentato all’appuntamento per snobbare i principali promoter della globalizzazione. Quando si insedia una nuova presidenza è buon costume statunitense evitare di andare in giro per il mondo a tenere discorsi. Ma nemmeno si può credere che il presidente cinese, segretario del partito comunista di quel vasto paese, possa diventare il campione del libero mercato. Il discorso di Xi ovviamente non può non avere un effetto e se vogliamo, positivo, per la sua entusiastica adesione a principi che nella sua società si sono avversati per decenni. Una sola stonatura, quando Xi ha accusato l’eccesso di profitto come uno dei mali del nostro scorcio di secolo. I comunisti, anche i più emancipati, hanno sempre un qualche problema a comprendere il profitto, il quale è posto alla base dell’attività economica ed imprenditoriale. Nessuno lavora per fare beneficienza e quando si da tutto se stesso in un’attività, è difficile pensare di porsi anche autonomamente un limite ai guadagni che si ricavano. Dovrebbe essere lo Stato a preoccuparsi di un riequilibrio e se davvero otto persone da sole hanno patrimoni che superano la ricchezza di metà del resto dell’umanità, c’è qualcosa che non funziona nel sistema di ridistribuzione per colpa degli Stati e non della logica del profitto. D’altra parte attendersi dal neoliberista Xi una qualche critica allo Stato, è davvero troppo. La Cina è ancora un paese per gran parte dirigista, senza contare che quel tanto di apertura ai mercati non è stata accompagnata da diritti civili per i lavoratori, per non parlare di un qualche abbozzo di vita democratica che manca completamente. A Pechino, tutte le decisioni le prende sempre il plenum supremo del partito. Per cui il leader cinese merita la massima considerazione, ma prima che il mondo occidentale lo erga a suo campione, sarà ancora meglio aspettare le prime mosse della presidenza statunitense.

Roma, 18 gennaio 2017